Su La Lettura di ieri (purtroppo non c’è ancora una versione online), inserto domenicale di cultura e società abbinato al Corriere della Sera, c’è un articolo di Tom Bissell, critico e giornalista videoludico, ove tratta dei perimetri dei videogiochi tendenti a sconfinare sempre più nel mondo delle esperienze narrative tipiche della letteratura.

Con buona pace di chi ancora abbia da prendersi la briga di obiettare su l’equiparabilità dei videogiochi ad altre forme di produzione umana, Bissell enfatizza il fatto che il mezzo videoludico necessiti ancora di estenuanti critici negazionisti del fatto che meriti un posto nell’olimpo dell’arte. Questo perché i videogiochi stessi ne trarrebbero il giusto giovamento per continuare il processo di ricerca e innovazione di nuove forme narrative ancora inesplorate, e per cercare, ancora una volta, di scuotersi di dosso il vestito di testimone responsabile di tutte le stragi commesse nel mondo civilizzato negli ultimi tempi.Ma è veramente così? Autori, producer e sviluppatori hanno veramente bisogno di qualcuno che gli ricordi costantemente il loro mestiere sia la causa del male del mondo e non sarà mai equiparabile a un libro, a un film o a una pièce teatrale?Una condivisibile risposta viene dalla tastiera di Lucy Prebble su The Guardian. In alcuni passaggi sottolinea quanto il mezzo sia simile alla scrittura:

I think it’s linked to writing. Like writing, gaming is essentially private and individual (although it really doesn’t have to be). It is creative, in comparison to the passivity of watching a film or reading a book. You are making choices and, often, are even designing the world yourself. And, perhaps most crucially, it is controlling.

L’importante differenza di percezione della violenza e di come viene strumentalizzato il mezzo a giustificazione di determinati comportamenti:

But perhaps the real problem is that most of the high-profile games are obsessed with violence and with warfare in particular. When there is a school shooting or any other act of violence from a relatively young person, the shooters the shooters played are always reeled out, just as film, television and music have all been called on before, to display exactly how this erosion of morality began. No mention that everyone else of that generation was playing them too and somehow managed not to become convinced that by walking over food or ammunition they would somehow magically “pick them up”. “But don’t you know they use Call of Dutyto desensitise soldiers before they send them out to Afghanistan?” I hear people say. “How can you possibly support that?” As if the most reprehensible thing about sending a teenager to another country to kill strangers is the manner in which we attempt to prepare them.

Anyone who has ever been unfortunate enough to suffer violence, or to perpetrate it, understands inherently that there is a difference. It is surprising and heartening how few of us in the west have, when we think about it. But the crack of a fist against jaw in real life, or the scream of a man from an alley, or the sight of blood in a woman’s hair between blows — these are moments that, when actually experienced, fade the fake destruction of worlds on a screen into mute monochrome. Real violence is never forgotten. And it belittles it and patronises people to imagine that we cannot tell the difference

Io non so se i videogiochi hanno veramente necessità di una continua relegazione ai bassi fondi culturali dell’umanità per poterne uscire rinnovati, compresi e migliori. So per certo però che c’è ancora bisogno di un nuovo paradigma di comprensione. Perché si è ampiamente dimostrato che si è in grado di far meglio del cinema, non ancora del tutto credo della letteratura, forse mai dell’arte. Ma a differenza dei primi due è l’unico campo che ha ancora un ampio, ampissimo margine di innovazione, sperimentazione e esplorazione. Per non parlare dell’interazione uomo macchina, inizialmente esplorato da Nintendo con Virtual Boy e Power Glove, nei tempi recenti ancora lei con Wii Motion Control e Microsoft con Kinect.Viste le cifre di vendita, credo che il tema violenza poco preoccupi chi i videogiochi li produce, e credo nemmeno gli interessi far cambiare la percezione sull’argomento. Credo invece sia compito di chi di videogiochi ne scrive, li vive e li fa propri cercare di raccontare l’esperienza che rimane e i valori condivisibili di un’esperienza sensoriale completa.Il famoso effetto catartico associato ad arte, cinema e letteratura in un poi così lontano passato.